Ahmad
Shah Massoud
Di tanto
in tanto, nel corso della storia, le radici invisibili della Sacra Pianta
della Tradizione alimentano frutti straordinari, destinati, per la loro
rigogliosa pienezza, a nutrire perpetuamente gli spiriti affamati di luce.
A volte sono uomini di filosofia, artisti, letterati, figure religiose
e politiche, individui generosi che donano più di quanto abbiano
ricevuto, personalità che trascinano con carismatica attrazione
moltitudini di anime verso destini grandiosi. A volte sono guerrieri.
Come quello che incontrai più volte nel paese degli Ariani, alte
montagne e sconfinati deserti tra Persia, Cina, Russia e subcontinente
indiano: l'Afghanistan.
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Ahmad
Shah Massoud, il "leone del Panjshir", il comandante dei mujaheddin
che negli anni '80 combatterono e sconfissero le truppe di occupazione
dell'Armata Rossa, parlava con la sobrietà e la semplicità
degli uomini consapevoli del proprio valore. In una spoglia stanza di
una casa segnata dalle schegge di bomba conobbi per la prima volta l'uomo
che era già divenuto leggenda, incubo dei reparti sovietici, vessillo
di libertà per un popolo che resisteva orgogliosamente all'imperialismo
rosso. Il Panjshir, dove mi trovavo, aveva subito numerose offensive delle
truppe di Mosca: bombardamenti a tappeto con Tupolev 16, e invio di venti,
a volte trentamila soldati supportati da reparti corrazzati con l'appoggio
di commandos che gli elicotteri russi depositavano sulle cime che circondavano
la valle. Niente da fare: la distruzione dei villaggi, dei canali d'irrigazione
e dei raccolti, il massacro di migliaia di civili, non era mai servito
alla conquista della roccaforte di Massoud. Il comandante si ritirava,
attendeva che i sovietici allungassero le loro linee nel dedalo di vallate
e di remoti dirupi e puntualmente contrattaccava infliggendo al nemico
pesanti perdite e umilianti lezioni di tattica militare.
"Con l'aiuto di Allah l'Onnipotente e il sacrificio dei combattenti
del "Jihad" riporteremo la pace in Afghanistan" mi aveva
detto sorridendo serenamente mentre cupi boati salivano dalla piana di
Charikar, lo sbocco del Panjshir verso Kabul.
Ma la pace non arrivò: quando dopo la sconfitta del regime filosovietico
Massoud entrò nella capitale dell'Afghanistan da Ministro della
Difesa, trovò nuovi nemici. Le fazioni integraliste dei mujaheddin,
quelle che Washington aveva privilegiato nelle forniture militari nonostante
la loro evidente inconsistenza nella guerra all'Armata Rossa, scatenarono
l'inferno nella città. Decine di migliaia di vittime e nuove distruzioni
segnarono gli anni dal '92 al '94. Poi, per garantire tranquillità
ai progetti di sfruttamento delle fonti di energia da parte delle multinazionali,
e assicurarsi il controllo di un'area strategicamente essenziale, il Dipartimento
di Stato foraggiò i "folli di Dio", il movimento dei
Talebani, gruppi di wahabiti pashtun con forti legami in Pakistan ed Arabia
Saudita. Massoud lasciò Kabul nel '96 per evitare alla popolazione
nuove sofferenze: riprese la guerriglia nel nord, consapevole di dover
fronteggiare ora le mire imperialistiche dell'altra Grande Potenza, che
agiva nel suo paese attraverso i servizi di Islamabad.
Indipendente, libero, tradizionalista, incorruttibile: Ahmad Shah Massoud
è morto per questo. Fin da giovane aveva combattuto perché
l'Afghanistan rimanesse fedele alle proprie tradizioni: iscritto al movimento
islamista, a partire dai tempi del liceo aveva partecipato alla lotta
politica contro le ingerenze straniere nel Paese. L'attività del
movimento era diretta in senso ri-voluzionario anche contro i privilegi
delle classi dominanti, accusate di tradire lo spirito dei codici sociali
tradizionali afghani : primo fra tutti quello che prevede meccanismi di
riequilibrio delle disparità economiche tra individui, secondo
i precetti del Corano. Il giovane tagiko partecipava alle marce di protesta
contro l'intervento statunitense in Vietnam e si rendeva protagonista
di accese manifestazioni antisioniste che venivano organizzate all'Università
di Kabul. Poi, con un pugno di fedeli compagni prese le armi, salì
in montagna e diede vita alla prima resistenza anticomunista d'Afghanistan.
Da
allora, per quasi trent'anni, fece quello che un guerriero deve fare:
combattere, anche quando la sconfitta appare certa, sancita non dal valore
del nemico quanto dalla decadenza di un'epoca che premia il vile ed ignora
il coraggioso.
E di coraggio ne aveva, Massoud. La prima linea era per lui l'ambiente
naturale in cui si muoveva dando l'impressione di schernire il pericolo.
Accanto ai suoi ragazzi e ai suoi vecchi ufficiali, affrontava il nemico
con il Kalashnikov imbracciato, la ricetrasmittente incollata all'orecchio
per impartire gli ordini. Bastava la sua presenza in un punto del fronte
che stava per cedere per rovesciare le sorti della battaglia. Accanto
al comandante sembrava che nulla di male ti potesse succedere. Il nostro
ultimo incontro avvenne nel novembre del 1998 a Taloqan, quando la città
era assediata da diecimila Talebani. La situazione appariva disperata,
le forze del Mullah Omar, sostenute da volontari pakistani ed arabi avevano
scatenato un'offensiva su più fronti. L'aviazione bombardava il
centro della città, in particolare il mercato, e numerose erano
le vittime tra i civili. Anche il Panjshir era sotto attacco. Inoltre,
un uomo armato, protetto dal vestito femminile che copre interamente la
figura era stato fermato poco prima che potesse avvicinarsi pericolosamente
a Massoud per l'ennesimo tentativo di assassinio. Di fronte a tutto ciò,
il comandante aveva fatto rientrare in Afghanistan la moglie e i figli
dal loro sicuro rifugio in Tagikistan. Il segnale per i suoi uomini era
chiaro: il Leone avrebbe resistito, e avrebbe vinto ancora una volta.
Parlammo in francese durante un colloquio che si concluse con la promessa
di rivederci di lì a breve: mi salutò dicendomi " torna
in pace alla tua famiglia". Io pensai alla sua, riunita in qualche
casupola di fango ad attendere un nuovo inverno di guerra.
Questo era Massoud, l'uomo che qualche mese prima della sua morte fece
di malavoglia un giro in Europa. Lui, che mai lasciava le sue montagne
e i suoi mujaheddin, venne spinto dai suoi consiglieri a percorrere per
qualche giorno gli untuosi corridoi della politica occidentale. Trovò
ciò che ci si poteva aspettare: l'imbarazzo e la freddezza dei
pingui burocrati di Strasburgo di fronte a qualcuno la cui sorte era forse
già stata decisa. Un uomo con cui non si possono fare affari è
un uomo totalmente inutile per l'Europa delle Banche.
Il 9 settembre di quest'anno due algerini con passaporto belga hanno fatto
esplodere una carica di esplosivo nella stanza in cui Massoud stava per
rilasciare una intervista.
Un "regalo" di Bin Laden ai suoi protettori di Kabul, si è
detto. Fatto sta che con Ahmad Shah Massoud scompare il condottiero che
si è opposto per tutta la sua esistenza alla concezione materialista
del mondo che marxismo e capitalismo hanno cercato di imporre al suo Paese.
Per me, con lui, è scomparso non un amico, perché della
sua amicizia mai sono stato degno, ma un luminoso esempio di libertà.
Il frutto straordinario di una pianta dalle antiche radici nascoste .
Franco Nerozzi
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